Lo smart contract è un protocollo informatico, scritto e attestato su blockchain, che esegue i termini di un accordo tra due parti. La caratteristica principale di questo strumento è quella di gestire l’adempimento di un contratto secondo logiche predefinite di if – then: all’avverarsi di una condizione si produce automaticamente una specifica conseguenza.
Per queste ragioni, tanti, in dottrina, sostengono che lo smart contract realizzi una sostanziale coincidenza tra conclusione ed esecuzione del contratto, impedendo alle parti di interferire in tale meccanismo.
Questo tipo di contratto è allo stato attuale utilizzato principalmente nei rapporti assicurativi, nei servizi di delivery e nelle transazioni finanziarie. Nel primo caso – ad esempio – lo smart contract consente che, al verificarsi di un evento dannoso coperto da garanzia, consegua la liquidazione automatica del risarcimento, senza l’intervento di intermediari, quali ad esempio il liquidatore.
Il processo, ben inteso, non è reso possibile unicamente dallo smart contract, quanto dalla interazione del protocollo con altre piattaforme informatiche – app metereologiche, infrastrutture di sicurezza, sensori – che consentono al primo di ricevere tutte le informazioni utili sulla segnalazione del sinistro, sulle cause che lo hanno determinato e sull’entità dello stesso.
E il lavoro?
Allo stato attuale invece non si registra alcun tentativo di applicare questo strumento al rapporto di lavoro. La stessa dottrina mette fortemente in dubbio che ciò possa accadere, soprattutto nel breve termine. Nel contratto di lavoro, infatti, coesistono parti che non hanno, tra loro, il medesimo rapporto di forza e che fanno interagire nel rapporto diritti di rango diverso, a tratti intangibili. Esiste peraltro un ampio apparato normativo, stratificatosi in decenni di produzione e interpretazione, che non consente automatismi del processo gestionale del rapporto di lavoro. E in effetti talune situazioni tipiche del rapporto di lavoro mal si conciliano con una traduzione in regole codificate secondo il linguaggio informatico. Basti pensare alla oggettiva difficoltà di trasporre in un protocollo informatico il caleidoscopio di situazioni, anche soggettive, che determinano il licenziamento o le dimissioni per giusta causa.
A mio modo di vedere la maggiore difficoltà nascerà proprio da questo: nel rapporto di lavoro la componente umana è necessariamente prevalente in una pluralità di aspetti ed è pertanto poco incline a essere automatizzata.
Esiste tuttavia un problema di fondo, che probabilmente prescinde dalla materia dello smart contract e riguarda il rapporto tra il diritto del lavoro e il progresso. É indubbio infatti che il diritto non possa retrocedere dalla sfida epocale lanciata da innovazioni come lo smart contract e soprattutto dal suo compito fondamentale di essere interprete e regolatore della realtà nelle sue continue evoluzioni.
Questa dinamica mi induce a ritenere, inoltre, che lo smart contract, l’intelligenza artificiale e le continue innovazioni a cui stiamo assistendo non possano, almeno per il momento, mettere in concreto pericolo il ruolo dell’avvocato. Lo smart contract infatti richiederà sempre un intervento qualificato in sede di scrittura del protocollo informatico, che potrà essere fatta certo da un esperto informatico, non senza però il valido supporto di un esperto legale.
Credo peraltro che l’esecuzione automatica, non più filtrata dall’intervento delle parti, limiti l’intervento di intermediari legali, ma non sia in grado ancora di elidere una considerazione fondamentale: lo smart contract è pur sempre un contratto, che può essere impugnato e discusso nel proprio contenuto come la generalità dei contratti del mondo c.d. reale.