Il Comitato Europeo dei diritti sociali ha accolto il reclamo proposto dalla CGIL avverso le Disposizioni in materia di contratto di lavoro indeterminato a tutele crescenti, introdotte in Italia dal d.lgs 23/2015 (il Jobs Act).
Il decreto è stato giudicato complessivamente in contrasto con l’art. 24 della Carta Sociale Europea, secondo il quale “tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento.”
Il parere negativo è stato espresso sia con riferimento ai valori massimi dell’indennità prevista in caso di illegittimo licenziamento (pur rivisti al rialzo dalla Legge Dignità), che in relazione al meccanismo dell’offerta di conciliazione.
L’impianto normativo è stato giudicato nel complesso insufficiente a tutelare il diritto dei lavoratori a ricevere una congrua forma di riparazione del danno in caso di illegittima risoluzione del rapporto.
Si tratta di un intervento giuridicamente non vincolante e tuttavia di assoluto rilievo. Il suo contenuto potrebbe mettere in discussione (per l’ennesima volta) non tanto le singole norme, quanto la visione del problema e la concezione della sua soluzione.
Concludere per la non adeguatezza dei meccanismi indennitari porta infatti a dover necessariamente considerare quali siano le alternative e constatare, dunque, che l’unica percorribile in natura potrebbe essere la reintegrazione (da scegliere se “vecchia maniera” o nella versione aggiornata del 2012).
Questo passaggio induce però a dover (continuare a) domandarsi se la reintroduzione di questa tutela, certamente auspicabile da parte di chi subisce un licenziamento, su un piano più generale sia idonea a bilanciare i problemi che nascono a causa della risoluzione del rapporto con quelli che possono precedere e addirittura impedirne il sorgere.
Siamo sicuri che insistere sull’abbattimento dei meccanismi indennitari in favore della reintegrazione risponda ancora a un interesse generale dei lavoratori?
La risposta non è scontata ma invita a riflettere sull’attuale situazione del mercato del lavoro, che soffre di stagnazione (9,8% di disoccupazione a dicembre 2019) ed è attraversato da spinte sempre più forti verso la flessibilità e immaterialità del lavoro (gig economy). In questo contesto non sono sicuro che la rivisitazione del Jobs Act possa determinare un aumento di interesse delle imprese verso la costituzione di rapporti di lavoro tutelati dalla reintegrazione.
L’opinione rischia di essere impopolare e fastidiosa, me ne rendo conto, ma è al tempo stesso realistica e attenta all’evoluzione che il lavoro e il diritto del lavoro (nel bene e nel male) hanno attraversato in questi anni. Il rischio è che la volontà di giocare il tutto e per tutto sul tavolo possa mettere fortemente in crisi la possibilità di puntare ancora in futuro.
Nel 1938 il regista Fritz Kirchoff ha diretto il film Il Passato che torna, storia di una donna che decide di risposarsi dopo la scomparsa e la dichiarazione di morte del precedente marito (padre del suo unico figlio) durante la rivoluzione russa.
All’improvviso il marito ricomparirà, reclamando i propri diritti sul figlio e causando non pochi turbamenti alla donna e al nuovo marito.
La storia ha, per fortuna, un lieto fine: il redivivo si rende conto dell’immenso dolore causato alla ex moglie e decide così di rinunciare alle pretese sul figlio, scomparendo per sempre.
Il passato che torna fuori tempo massimo, appunto.