Le offese e le vessazioni subite da un collega di lavoro possono integrare il reato di mobbing e del conseguente risarcimento del danno deve rispondere direttamente il datore di lavoro, per il fatto di non essere stato in grado di garantire la serenità del dipendente offeso.
Questo, in sintesi, il principio espresso dalla recente sentenza della Corte di Cassazione n. 27913 del 4 dicembre 2020, che ha dato nuovamente applicazione ai consolidati precedenti in materia.
Il Supremo Collegio ha ribadito che l’art. 2087 del Codice civile, quale norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di adottare ogni comportamento e accorgimento utile a preservare l’integrità psico-fisica dei dipendenti in azienda, anche nei confronti di eventi non strettamente correlati all’esecuzione del rapporto di lavoro.
Nel caso di specie, il Collegio ha inoltre valorizzato il principio del neminem laedere, sancito dall’art. 2043 del Codice civile, per specificare che la sua violazione può derivare anche da comportamenti di carattere omissivo e in particolare dall’inosservanza del dovere giuridico di impedire un evento, che sia previsto da una clausola contrattuale o da una norma di legge (nel caso deciso l’art. 2087 cod. civ.).
Per queste ragioni, nella fattispecie giudicata la Corte ha rinvenuto una responsabilità in capo all’azienda per il fatto di non aver fatto cessare comportamenti tra colleghi di cui era a conoscenza.
Il tema del mobbing, a lungo dibattuto in dottrina e in giurisprudenza, merita costante attenzione in ambito aziendale, anche per evitare contestazioni di responsabilità, sicuramente evitabili utilizzando la dovuta diligenza.
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