Giocoforza torniamo a parlare del divieto di licenziamento per motivo economico, che l’art. 12 del Decreto-legge n. 137/2020 ha esteso sino al 31 gennaio 2021 (ma, a quanto pare, seguirà un ulteriore rinvio alla fine di marzo 2021).
Lo facciamo perché il Governo continua a imperniare la propria azione su una politica assistenzialista tout court, basata sullo scambio tra cassa integrazione (o esonero contributivo) e divieto di licenziare. Attività, queste, preferite a qualsiasi intervento minimamente proiettato sugli scenari futuri e di rilancio delle nostre attività produttive e del mercato del lavoro.
È indubbio che nella fase iniziale della pandemia la limitazione alla facoltà di licenziare abbia creato sicuri vantaggi sociali. In questo senso si era rivelato più che fondata il patto sociale tra aziende e Stato, all’interno del quale le prime avrebbero accettato il trade off tra cassa integrazione e divieto di licenziamento per limitare i propri danni economici e salvaguardare i livelli occupazionali.
Oggi questa politica ha però definitivamente segnato il passo.
Il nostro sistema vive da mesi uno stato di coma economico e occupazionale, rispetto al quale l’estensione del divieto di licenziamento agisce sulla base di una visione a brevissimo temine del problema a tutto detrimento di prospettive di futura stabilità e senza alcuna aspirazione di incidere in maniera strutturale.
Continuare ad anteporre il reddito oggi alla creazione di politiche e di posti di lavoro per il domani sconta un evidente disinteresse sugli scenari post pandemici e non è una scelta portatrice di utilità durature.
Non lo è per le imprese, che dovranno continuare a operare sulla gestione corrente delle problematiche Covid abbandonando ancora per diversi mesi ogni processo di riorganizzazione e ristrutturazione del proprio business in vista della uscita dalla pandemia.
Non lo è per il mercato del lavoro, che, anche a causa dell’enorme ingolfamento dei licenziamenti per motivo economico alla fine del divieto, risulterà ancora più stagnante senza l’introduzione di politiche attive in grado di migliorarlo.
Non lo è, dunque, per chi il posto di lavoro lo aveva perso prima del divieto e si troverà di fronte a difficoltà ancora maggiori di reinserimento in aziende, le quali anteporranno la ristrutturazione ai nuovi ingressi.
E ovviamente non lo è neppure per i lavoratori, i quali non sono stati ancora posti di fronte al fatto, ahinoi compiuto, che in molti casi si trovano a operare in aziende che non hanno più un posto di lavoro per loro e che prima o poi, ineluttabilmente, dovranno portare avanti un processo di ristrutturazione volto alla loro sopravvivenza.
Da qualsiasi angolazione si guardi il mercato del lavoro, dunque, l’intervento proattivo sulle condizioni del mercato che verrà sarebbe sicuramente prioritario all’estensione del divieto di licenziamento, il quale garantisce ai lavoratori solamente una tutela effimera, di fatto privandoli di prospettive concrete nel medio termine.
I processi di uscita ed entrata nel mondo del lavoro (tranne rare eccezioni) sono spenti da otto mesi; riavviarli richiederà grande competenza, progettualità e una adeguata dose di tempo. Aver allungato ancora una volta il divieto di licenziamento renderà tutto ciò ancora più lungo e macchinoso, nonché foriero, probabilmente, della politica dell’emergenza che oggi non è più sensato continuare.